Il francese che non voleva fare ingoiare un Russo al dittatore cinese!

Macron ha invitato il dittatore cinese ad un’abbuffata in un ristorante del colle del Tourmalet nei Pirenei. Al momento del dessert, Macron ha evitato di ordinare il Russo che è il dolce più mitico dei Pirenei, non voleva provocare un incidente diplomatico con il timoniere dei mie stivali. Quindi il tizio, ogni giorno, ci fa ingoiare dei rospi, e l’altro, il cinese, non potrebbe ingoiare un russo una sola volta in vita sua, ma io dei Russi, ogni giorno, voglio mangiarne!

Va bene, Facciamoci un Russo!

Gli ingredienti:

Il Russo è una crema al burro tra due biscotti. Questo biscotto tipico del Sud-Ovest a base di meringa si chiama “dacquoise”. La crema al burro vi rende manicheo, sia vi piace da morire sia vi fa subito schifo.

Per il biscotto dacquoise:

  • 6 albumi d’uovo
  • 100 g di zucchero
  • 80 g di farina di mandorle
  • 10 g di farina
  • 25 g di zucchero a velo

Per la crema al burro e pralin:

  • 4 tuorli d’uovo
  • 150 g di zucchero
  • 300 g di burro freddo
  • 140 g di pralin (100 g di pralin e 40 g di nocciole tritate)

Iniziamo dal biscotto che è molto semplice da fare.

Preriscaldate il forno a 180 gradi. Montate i bianchi a neve. Incorporate lo zucchero…

Setacciate insieme lo zucchero a velo, la farina e la farina di mandorle. Incorporate delicatamente ai bianchi montati a neve e abbiamo il biscotto.

Se pensate essere uno chef, usate di una sac à poche (sic), Se siete senza niente come me, una spatola per stendere il biscotto su una placca rettangolare, rivestita di carta forno, va bene lo stesso. Non dimenticate di spolverare un po’ di zucchero a velo sopra il biscotto. Il rettangolo deve fare 1 cm di spessore.

La cottura si fa a “biste de nas” come diciamo in guascone, all’occhio insomma, il biscotto deve essere croccante sopra, morbido sotto. Il Risultato dopo circa 25 minuti di cottura nel mio forno merovingio. Lasciate la dacquoise raffreddare.

Passiamo ora alla crema al burro e pralin.

 Sbattete i tuorli con un cucchiaino di zucchero fino ad ottenere un composto chiaro.

Preparate uno sciroppo con lo zucchero e 30 g d’acqua. Io lo faccio ancora a “biste de nas” per la consistenza, ma se avete un termometro, lasciate bollire fino a quando lo sciroppo raggiunge 120 gradi. 

Versate lo sciroppo nei tuorli senza smettere di mescolare. Poi aggiungete il burro tagliato a pezzi.

Aggiungete il pralin e le nocciole tritate. Mescolate tipo Braccio di Ferro perché dovete ottenere una crema. Il risultato sopra.

Tagliate la dacquoise in due.

Spalmate una metà della dacquoise con la crema al burro e ricoprite con l’altra metà. Ritagliate i bordi, se volete aver qualcosa di perfetto.

Spolverate il Russo di zucchero a velo e riservate un giorno intero in frigo. Il Russo non si porta mai intero a tavola. Dovete tagliare dei quadretti o dei quadri secondo la vostra golosità.

Buon appetito!

N.B: Il Russo è il segreto di una famiglia incorruttibile, segreto che si trasmette da una generazione all’altra nella famiglia Artigarrède che possiede una pasticceria a Oloron Sainte-Marie nei Pirenei Atlantici. Non l’hanno inventato loro, Il dolce verrebbe della penisola di Crimea ed era molto popolare nella Francia del XIX secolo, poi è caduto nel dimenticatoio tranne nei nostri Pirenei dove la famiglia Artigarrède ha migliorato la ricetta con alcuni ingredienti di cui non sveleranno mai il segreto. Quindi il Russo sopra è solo un buffo tentativo di scimmiottare il Russo della famiglia Artigarrède. Se Andate a Pau, Tarbes od Oloron e che non assaggiare il loro Russo, non avete visto niente dei Pirenei.

Come si dice batch cooking in francese?

Henri Rivière. 1889. Sei operai su una piattaforma della Torre Eiffel. Museo d’Orsay. Parigi.

Guardo un servizio televisivo in cui una giornalista mi parla di una rivoluzione venuta dagli Stati Uniti chiamata batch cooking che spopola sui social. Il batch cooking consiste nel preparare i suoi pasti in anticipo per la settimana. Parlate di una rivoluzione! Insomma la giornalista e i cretini filmati nel servizio che si estasiano davanti a questa rivoluzione copernicana, stanno scoprendo qualcosa che esiste dalla notte dei tempi in questo fottuto Paese e che si chiama in francese: la gamella, preparare la gamella, fare la gamella, cucinare la gamella della settimana, portare la sua gamella al lavoro, ai campi, in ufficio, in fabbrica….ecc”. Esempio: stai mangiando con noi alla mensa questa settimana, Alex? Si, ma porto la mia  gamella. Probabilmente, una trovata commerciale di qualche fabbricante di gavette di plastica questa storia di batch cooking. E poi, potete raccontarmi tutte le frottole che volete, che il batch cooking permette di mangiare in modo più sano, che i grandi cuochi si sono messi al batch cooking, che il batch cooking ti fa guadagnare tempo (a fare che? guardare dei video di batch cooking?) e ti evita di pensare ogni giorno a cosa cucinare…ecc. Quando pratico il batch cooking (non sapevo che facessi del batch cooking come monsieur Jourdain non sapeva di parlare in prosa nel borghese gentiluomo di Molière) e che porto la mia gamella al lavoro, è per la stessa fottuta ragione di quella di tutti i lavoratori di questo Paese che fanno del batch cooking senza saperlo, siamo troppo squattrinati per mangiare al ristorante!

In cui un abitante dei Paesi Immobili percorre un tratto della strada dei vini del Médoc.

Brutta zona commerciale, di quelle che si replicano ovunque in Francia quanto le metastasi di un cancro. Un inno alla bruttezza. Poi, la ridente Macau, il paese dei carciofi che non si mangiano più. Ahi, per colpa delle inondazioni, la mia mancata passeggiata tradizionale di marzo nella palude di Labarde dove fioriscono per milioni i campanellini d’estate. Rimpianti amari. Croci fai da te e fiori di plastica lungo la strada, cadaveri di caprioli e di cinghiali abbandonati nei fossi. Vite falciate. Rinascita di sua maestà la vite, la nostra schiavista. Odore di aratura, di letame e di poltiglia bordolese. La piccola cappella di San Giacomo di Compostela che se non lo sapete, pensate a qualche ovile in un prato allagato. Gli innumerevoli plotoni ciclisti che percorrono le strade del Médoc dal  primo gennaio al 31 dicembre, Dove vanno? Da dove vengono? Mistero. La casa di mio fratello presso la ferrovia quando lui abitava questo paesello da quattro case. Be careful! Il marvelous château Palmer fotografato da turisti di Mishawaka che ingombrano la strada provinciale. La snob Margaux e la sua curva all’ingresso del paesello con il cartello che proclama che siete nel vitigno più prestigioso dell’Universo; appena avete letto il cartello, addio Margaux che si allontana già nel retrovisore. Un campo di pioppi bianchi sdraiati nella palude di Arcins dalle tempeste invernali e che continuano, indifferenti, a crescere all’orizzontale. La Torre Eiffel miniatura di Soussans che vi ricorda che la Francia è sull’altra riva del fiume. Il campanile-faro quadrato alla base poi rotondo di Lamarque che vi fa da guida. Le pietre calcaree delle case della cittadina di cui il biancore vi rende cieco al primo raggio di sole primaverile. La strada scassata verso “il porto” che altrove nell’universo si chiamerebbe modestamente prato. Mucche che pascolano nella palude e campi già seminati a granturco. Vendita di latte fresco alla cascina e se non trovate il contadino, sarà perché sta cercando il cane che è scappato per l’ennesima volta, curiosamente verso il bar del porto. Un plotone di ciclista fa una pausa al bar, gigantesco piatto di salume e birra bianca. Eh, addio la compagnia! Allora quando non bloccate le strade, bloccate l’accesso al banco! Ordino un bicchiere di vino bianco. Ma da dove venite? Da Le Porge (sull’Atlantico) e ci torniamo dopo. Caspita, fa un tratto di strada, una quarantina di chilometri! direi. E poi, fa un fiero Bernard Hinault di ottant’anni, noi amiamo soffrire quindi siamo passati da Hourtin prima di scendere a Lamarque. Diciamo 120 km andata e ritorno e poi le stradine non sono tutte piatte. Eh, lo so che abbiamo la montagna nel Médoc! Ho le orecchie tappate ogni volta che vado a Listrac (altezza 45 metri). Ridono al mio scherzo ed abbandono i ciclisti-bevitori di paglia per sedermi a un tavolo sotto i platani per continuare la mia lettura di un romanzo magiaro, poi sono cacciato dai pigoli delle rondine che infestano i cieli del Médoc. Una trinità di garzette vola verso l’oceano. Impossibile di concentrarsi. Il porto è più animato del solito; sono le vacanze di Pasqua. Accenti francesi che non so situare, una coppia chiacchiera in inglese. Una nonna ha saltato la balaustra della diga per raccogliere del legno galleggiante, il nipotino vuole farsi una spada. Mi diverto già ad immaginarla slittare ed atterrare nelle acque fangose del fiume, ma non succede. Peccato. Il traghetto Sébastien Vauban sta arrivando per sbarcare il suo carico di ciclisti, indigeni, turisti, camper, trattori, macchine e un asino che accompagna due pellegrini di Compostela. Sbarcare ed imbarcare prende meno di un quarto d’ora, il porto ritrova la sua calma fino alla prossima rotazione del Sébastien Vauban. Sarebbe bello salire sul traghetto per andare alla cittadella di Blaye o all’antica villa romana di Plassac, un giorno di mercato ovviamente, comprare ai ragazzi, avvolti in una carta da giornale dei gamberetti all’anice da mangiare sui bastioni. Chiudo gli occhi e mi vedo già a fare l’americano di Mishawaka sul traghetto, a comprare asparagi, meloni e gamberetti al mercato di Blaye. Mi siederei a un tavolo da pic-nic dentro la cittadella con la vista sulle isole dell’estuario, l’isola Verde, l’isola Paté, l’isola Senza-Pane, l’isola Bouchaud, l’isola del faro di Patiras….e poi, dopo appena una mezz’ora mi verrebbe una di questa malinconia della mia penisola del Médoc che avrei fretta di ritornare al traghetto delle tre e mi metterei a correre come un pazzo per scendere al porto. Apro gli occhi, sono sempre sulla riva fangosa del mio fiume, la felicità di essere squattrinato gli ultimi giorni di aprile…..   

Mentre gli italiani meriggiano, i francesi mideronnano!

Fonte che ha ispirato il post

Ogni tanto leggo su internet la bufala della lista delle parole italiane intraducibili in altre lingue.

Sopra una pagina di un dizionario italiano-francese del 1663

Prendiamo per esempio il verbo “meriggiare”che sembra il più difficile a tradurre (sic) e di cui l’autore dell’articolo scrive:

*Si apre così una poesia di Eugenio Montale contenuta nella raccolta Ossi di Seppia, in cui protagonista è proprio questo vocabolo aulico e ormai per lo più desueto. “Meriggiare” ci vede riposare all’ombra nelle prime ore del pomeriggio, all’aperto, in una giornata di sole; perfetta rappresentazione di uno stato di quiete a contatto con la natura. Ma come verrebbe tradotto questo “riposo fisico e spirituale” in un’altra lingua? Nessuna sfumatura aggiuntiva può essere colta nelle corrispettive traduzioni per la parola derivante da meriggio, sostantivo che indica “le ore intorno al mezzodì, quando il sole è più alto all’orizzonte.”

Beh, La raccolta Ossi di Seppia, no. Ma ho qualche poesia di Eugenio Montale in francese a casa. Comunque state parlando di un poeta che ha avuto un Nobel di letteratura quindi la sua poesia è stata tradotta in quasi tutte le lingue dell’universo.

Poi mi è bastata una ricerca di tre minuti su internet per scoprire.

1 Che il verbo “meriggiare” è tradotto in tutti i dizionari italiano-francese/francese-italiano almeno dal XVI secolo.

2 Che anche i francesi e non solo, meriggiano! C’è uno scherzo che dice che il principale lavoro dei corsi è appunto di meriggiare.

3 Che il sostantivo meriggio corrisponde esattamente a meridien in francese.

4 Che esiste, derivando dal provenzale “meridiano”nel senso sonno postprandiale, l’espressione francese desueta “faire la méridienne” che vuole dire “riposare alle ore intorno al mezzodi”.

5 Potreste obbiettare che l’espressione “faire la méridienne” è una perifrasi e non è per forza “all’aperto”tranne che esiste anche un verbo in francese per dire “faire la méridienne” all’aperto e all’ombra. Questo verbo è mideronner e ha esattamente lo stesso senso e la stessa sfumatura del verbo meriggiare. Mideronner è un verbo bellissimo e raro quanto meriggiare, sembra una specie di fusione tra midi (mezzogiorno) e ronronner (fare le fusa).

Facciamo un esempio: Dopo una mattinata sotto un sole massacrante al servizio di sua maestà la vite di Beychevelle, i suoi schiavi sono scappati verso il porto di Saint-Julien. Qualcuno ha regalato l’entrecôte, un altro ha portato due o tre fagotti di sarmenti, un altro ancora un piccolo vino di Listrac. Si lavano alla fontana mentre la carne sta sul barbecue comunale. Parlano forte, ridono, litigano a proposito di politica o di bici. Dopo il pranzo, gli schiavi della sua maestà la vite di Beychevelle mideronnano sotto i platani, cullati dal sussurro del fiume e dal rumore sottovoce di una radio che trasmette il tour de France. Mideronnano felici in questo inizio di pomeriggio di luglio dove il tempo sembra come sospeso. Stiate tranquilli, amici schiavi. Approfittate. Anche la padrone della sua maestà la vite di Beychevelle, in questo momento, sta mideronnando sotto la vecchia quercia del castello…

In cucina con Alex: Il dolce sbriciolato!

Il Médoc è un’isola. Il fiume, un confine. Sulla riva destra dell’estuario c’è la Saintonge, il Paese Gabai popolato da grandi mangiatori di lumache e grandi produttori di Cognac e di Pineau. Strana gente e strano Paese dove in ogni panetteria vi vendono il broyé del Poitou cioè lo sbriciolato o del Poitou. Dolce chiamato così perché gli indigeni del Paese Gabai tirano un pugno al centro del dolce per dividerlo. Ora, basta con le chiacchiere inutili, vediamo questa ricetta di dolce semplice semplice.

Gli ingredienti:

  • 250 g di burro del Poitou ammorbidito.
  • 250 g di zucchero.
  • 500 g di farina.
  • 1 uovo+1 tuorlo.
  • 1 pizzico di fior di sale.

Farina+fior di sale+zucchero+burro ammorbidito tagliato a pezzi+uovo. Impastate bene. Non c’è bisogno di essere braccio di ferro visto che è un gioco da bambino per tutte le nonne della Saintonge.

Riservate la pasta almeno trenta minuti in frigorifero.

Stendete la pasta a forma circolare. Spessore 1 cm. Pizzicate intorno con l’indice.

Dorate la superficie con il tuorlo. Decorate con i rebbi di una forchetta secondo la vostra fantasia.

Cottura circa 25 minuti a 180 gradi.

Tirate un pugno (o due o tre) al centro del dolce.

Buon appetito!

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