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Estuario: Aprile nel Médoc!

Un cielo azzurro, un caldo di aprile già massacrante, un vigneto con le sue prime foglie che crescono. Persa in mezzo a un oceano di viti, nel fondo,  una semplice chiesa romanica, edificata nel X secolo, con le sue tegole romane e tre cipressi davanti al vecchio campanile. Immagine idilliaca del Médoc, paesaggio italico….eppure, eppure, avvicinatevi, osservate le prime foglie e i germogli delle viti. Avete notato? Tutto è mezzo bruciato e sarà già una chance di potere vendemmiare qualcosa. Il Paese è rovinato. Non ha servito a niente il volo a bassa quota degli elicotteri che dovevano spingere l’aria calda, generata dai rotori, verso il suolo; non hanno servito a niente le candele antigelo, i bracieri, i migliaia di litri di benzina e di paraffina bruciate. Allo stesso modo che, una volta, non serviva a niente di fare suonare le campane per allontanare i temporali e le nuvole di grandini oppure che non serviva a niente contro il gelo le preghiere alle sante bestiole che vivono da più di mille anni in queste chiese e cappelle disseminate nei vigneti.

Aprile 1874: Dopo un 4 aprile splendido, il tempo si raffreddò, le nuvole apparvero e l’indomani del giorno di Pasqua ci furono il gelo e la grandine, la notte seguente fu chiara e, in seguito, i vigneti furono colpiti dalla brina….

Maggio 1884: Tempo arido con gelo in mattinata durante quasi tutto il mese, molte verdure non resistettero, ma è soprattutto la vite che fu bistrattata in tutta la Francia….

Maggio 1885: Il freddo fece danni considerevoli. La vite soffrì molto, gli alberi da frutti non resistettero…

Aprile 1892: Le temperature scesero fino a -6 gradi. Le patate, gli asparagi e la vite furono distrutti….

Maggio 1897: Gelo in Francia le notti del 12 e del 13 maggio. Tutto è danneggiato, le viti sono perse…..ecc….è così via fino al 2021

Davanti a questo tipo di disastro, ci saranno sempre imbecilli, di quelli che non si ricordano di quello che hanno mangiato il giorno prima, ma che vi diranno che è eccezionale e che “di memoria d’uomo” una cosa del genere non si è mai vista! Tappatevi le orecchie quando un cretino inizia una frase con qualcosa che assomiglia a “di memoria d’uomo” perché quello che segue è sempre una stronzata. Ed è tanto vero che è una stronzata che, una volta, si vietava addirittura alla gente del Médoc di coltivare unicamente della vite per colpa dei rischi climatici e particolarmente del gelo. I nostri antenati avevano più sale in zucca di noi e sapevano che la coltura della vite può arricchirti o portarti alla carestia…..  

Il Médoc è più piatto del Belgio, ma in aprile, nei boschi fioriscono, fino a tappezzare tutti i sottoboschi, le arenarie delle montagne. Allora l’indigeno che sono e che ha già le orecchie tappate in cima alle dune del litorale medocchino, ha l’impressione di respirare la buona aria delle montagne per qualche giorno, senza l’inconveniente della montagna. Una montagna che profumerebbe di poltiglia bordolese ovviamente!

Le ninfee sono fiorite negli stagni in mezzo alle foreste del Médoc. A me, non me la raccontate perché sono andato a Parigi al museo dell’Orangerie e ho anche fatto il viaggio in Normandia per vedere la capanna e il pezzo di giardino di Monet con al centro la pozzanghera e le ninfee che si rifiutavano a fiorire sotto le macchine fotografiche dei turisti asiatici. E vi dico che se Monet non fosse stato mezzo cieco come tutti gli impressionisti, non si sarebbe sistemato in Normandia per dipingere le sue ninfee, ma nel Médoc, in riva ai nostri immensi  stagni. Ma forse il tizio ha fatto bene a scegliere un paese umido e freddo. Avete notato tutti questi migliaia di piccoli bagliori  smeraldi, turchesi e rubini sopra le zattere delle ninfee? Ah, è che avete una buona vista! Sono libellule che fanno l’amore in posizione di cuoricini rovesciati. Che spettacolo! Anche le ninfee si dimenticano osservando le libellule. No, credetemi, ha fatto bene Monet a non sistemarsi nel Médoc che sarebbe diventato, se avesse avuto una buona vista, un pittore di libellule. Ma sapete che talvolta, il Médoc può essere davvero kitsch!

Dentro il cupo della foresta industriale, coltivata geometricamente e scientificamente, talvolta un raggio di sole illumina una quercia bianca che non si sa come essa ha fatto per crescere in questo ambiente. Ed è che c’è tutto un vecchio mondo sotto che chiede soltanto a rinascere! E vi dite allora davanti a questo miracolo che avevano ragione gli antenati dei  medocchini di oggi quando raccontavano che il Médoc era ricoperto di querce bianche da Bordeaux fino all’oceano, che si poteva, passando da albero ad albero, andare da Bordeaux fino a tuffarsi direttamente nell’Oceano. Una volta, ho letto un libro in italiano, Il barone rampante di Italo Calvino. Bellissimo. Stessa fiaba. Secondo me, è un medocchino che ha dato l’idea del libro allo scrittore ’italiano, altrimenti non è possibile, tanto avevo già sentito questa storia mille volte prima di leggerla!

RIP: I Girondini di Bordeaux sono falliti!

Si chiamava Aimé, ma tutti lo chiamavano Mémé (che vuole dire anche nonna in francese), tifoso accanito dei Girondini di Bordeaux dall’inizio; dal 1881 quando fu fondato il club da quattro amici che lavoravano sul porto della Luna e che volevano divertirsi giocando al calcio il weekend. Forse questo Mémé faceva parte di questa prima squadra; a me sembrava così quando ero bambino. Aveva 1000 anni ed era abbonato allo stadio da sempre; anche quando si giocava al vecchio stadio dietro il porto, egli doveva essere già sugli spalti a incoraggiare i colleghi docker che correvano dietro il pallone contro gli spagnoli del Solar. Mémé era gobbo per aver passato una vita a scaricare le navi. Camminava lentamente e gli amici lo vedevano arrivare da lontano con la sua giacca verde e la sua borsa da postino. Girava l’angolo della strada e metteva una mezz’ora per percorrere i 400 metri e raggiungere gli altri pensionati del porto che si dedicavano alle bocce. Té, eccoti Mémé, diceva mio nonno, e come stai? Mémé borbottava qualcosa a proposito della sua fottuta gobba. E un altro collega gli chiedeva: E che hanno fatto ieri i Girondini che giocavano a Lescure? Stavi allo stadio a guardare la partita? Ovviamente tutte queste domande erano rituali perché i vecchi erano anche loro abbonati allo stadio, in curva a dieci franchi mentre Mémé aveva l’abbonamento in tribuna come un riccone. Mémé si illuminava: Abbiamo vinto ancora una volta, anche quest’anno vinciamo il campionato. I marsigliesi possono mettersela al culo, è piegato! Poi Mémé ricadeva in una specie di apatia che i colleghi conoscevano bene perché era sempre la stessa storia quando i Girondini giocavano a casa. E che ti succede ancora Mémé con la tua faccia da Quaresima? non sei contento che siamo in testa al campionato? Ahi, sospirava Mémé, non è questo, ma mi hanno ancora derubato la rana (il portafogli) durante la partita! Ancora! esclamavano i suoi amici ridendo. Pardi, te l’abbiamo già detto mille volte di non andare allo stadio con la rana che a Bordeaux siamo tutti ladri! Perché non ascolti mai! E a cosa ti serve la rana per guardare una partita? Porta solo un po’ di spicciola se vuoi farti una birra durante l’intervallo. Ma ogni due settimane, tornava il Mémé a raccontare agli amici che qualcuno gli aveva derubato la rana a Lescure. Allora, gli amici gli davano consigli: dovresti nascondere la tua rana nella tua calza o sotto il tuo baschetto; dovresti cucirla nella tua giacca o nei pantaloni….insomma tutti gli amici di Mémé cercavano soluzioni più insensate le une delle altre per evitare a Mémé di farsi derubare la sua rana da ladri immaginari. Una volta solo Mémé non si era fatto derubare la rana allo stadio ed era la serata in cui i Girondini di Giresse e di Müller avevano dato una sculacciata ai “ritals” della Juve di Platini e Boniek. Era il 24 aprile 1985 e dieci anni dopo la morta di Mémé se ne parlava ancora tra i suoi amici. Ti ricordi del povero Mémé? Certo quello della rana? La volta in cui non ha più parlato per un mese, muto che era diventato il nostro povero Mémé. Ah, ah, ah, non parlava più dei tizi che gli rubavano la rana! Ma quando era già? Io me lo ricordo benissimo e posso dirvi che era il 24 aprile 1985! Il giorno in cui nessuno gli ha derubato la rana allo stadio; o forse qualcuno gli ha derubato, ma in questo giorno unico della sua vita, Mémé se ne fregava di essere derubato. Ma come fai a ricordarti così bene la data? Facile ho un mezzo mnemotecnico per ricordare questo giorno, era il giorno della mitica partita tra i Girondini e la Juve! Ah, diavolo di Mémé quanto ci manchi!…..

In cui l’autore vi darà mal di testa con un semplice papavero!

Alfred Roll (1846-1919). La signora ai rosolacci. Museo d’Orsay. Parigi

 Il rosolaccio si chiama coquelicot in francese. Il gallo si dice coq in francese moderno e all’origine è un’onomatopea del verso del gallo. Anche coquelicot è una delle onomatopee del verso del gallo. I francesi hanno sempre usato dell’onomatopea del verso dell’uccello per designarlo. Anche se oggi il verso del gallo è standardizzato e che tutti i francesi vi diranno che il suo verso è cocorico, una volta, l’uccello si chiamava diversamente secondo le regioni e le lingue che erano parlate in queste zone, ma il nome è sempre stato un’onomatopea del suo verso: Coquelico, Coquelicot, Coquericoc, Cocorique, Coq, Cocorico, Coquericot, Cacalico, Cacaraca, Quiquirico…ecc. Insomma i francesi non si scocciavano molto per inventarsi delle parole. Il verso dell’uccello è coquelicot, chiamiamo l’ucello: Coquelicot. Invece del verbo cantare, usiamo del verbo coqueliner quando un coquelicot canta. Ah, ora quest’uomo agita le braccia in un modo strano quando canta e ci fa pensare a un coquelicot che coqueline, usiamo del verbo coqueliquer per designare questo modo buffo di cantare che ci ricorda quello del coquelicot. La forma e il colore di questo fiore ci fa pensare alla cresta di un coquelicot, chiamiamolo semplicemente: Coquelicot…. 

In cui l’autore, prima del terzo lockdown, fa un viaggio fino alla fine del suo Mondo!

Domenica 5 aprile. Confine Nord della penisola del Médoc. Stanno ristrutturando il faro della Punta di Grave. Ci sarà un nuovo spazio museografico nelle due case che affiancano il faro e che non sono affatto antiche come il faro; edifici costruiti dopo la guerra. Il direttore del museo mi dice che, se tutto andrà bene, il faro riaprirà nel 2023. Il giorno prima hanno scoperto una bomba sul cantiere e l’hanno fatta saltare sulla spiaggia in mattinata. Appena si scava, sospira il direttore, troviamo delle bombe. Mi tornano in mente ricordi dell’infanzia intorno a questo faro. Mi vedo ragazzino, seduto su un bunker in cima alla duna, il nonno che mi raccontava della guerra e tutti i dettagli dell’operazione Frankton. Il bunker è sempre allo stesso posto e c’è anche un murales dedicato a quelli dell’operazione Frankton. Rivedo mia madre e mia nonna preparando il picnic sulla duna, tra i pini,  con la veduta sul faro di Cordouan; quante volte abbiamo sognato mio fratello ed io a fare una gita in barca fino al faro! Mi ricordo i bagni e le foreste pietrificate arrivate con le maree e arenate sulla spiaggia. Chiedevo sempre alla nonna: ma a destra, è veramente il fiume? E lei rispondeva: Tanto grande che sembra l’Oceano! Chiedevo ancora: Ma sull’altra riva, di fronte, cosa c’è? E lei rispondeva: “La Francia!” Un giorno, l’altro nonno, quello paterno, aveva telefonato alla nonna materna per chiederle di convincere mia madre di lasciarci con lui per qualche giorno. La colpa del figlio non è quella del padre, ripeteva mia nonna a mia madre. Poi, un giorno mia madre ha ceduto. Non conoscevamo questo nonno. Mio fratello che è sempre stato più aperto di me, gli ha dato subito del tu; io mai, gli ho sempre dato  del lei, anche più tardi quando l’ho visto più spesso e anche se sapessi che la cosa gli faceva male. Sono sempre stato un mostro. Il nonno aveva una bella pensione e una macchina nuova, un’americana con ancora la plastica che ricopriva i sedili; questo me lo ricordo bene perché abbiamo passato tutte le vacanze (che forse era solo un fine settimana!) le natiche incollate dal sudore alla plastica. Il nonno sconosciuto ha detto che andavamo a La Rochelle. Non mi ricordo più troppo bene e forse non mi aveva molto interessato allora, ma il nonno che lavorava sul porto di Bordeaux, era stato spedito durante la guerra a La Rochelle e voleva mostrarci i luoghi della sua gioventù e la gente incontrata durante i tre o quattro anni passati in questa città. Siamo arrivati alla Punta di Grave che conoscevamo tanto bene e abbiamo preso, per la prima volta, il traghetto per raggiungere la “Francia”. Mi ricordo ancora  della nostra eccitazione sul traghetto, a correre ovunque. Il nonno non diceva niente. La gente non era quella di oggi che è sempre dietro ai bambini. A La Rochelle, mi ricordo di un palazzo bianco con le persiane blu, una pensione di famiglia per i marinai e gli operai. Il nonno conosceva la proprietaria. Una stanza per il nonno, una per noi. Sognavamo di andare in spiaggia, ma non è mai successo. Il nonno ci trascinava soltanto sul porto industriale alla ricerca dei suoi ricordi, a fare gli umarells, a bazzicare i bar per incontrare vecchie persone che erano docker come lui. A mezzogiorno e alla sera, il nonno ci portava in un piccolo ristorante di quartiere. Mio fratello ordinava sempre quello che era il meno caro sul menù perché la nonna e nostra madre ci avevano detto di non fare troppo spendere; io invece ordinavo sempre quello che era il più costoso e, mentre mio fratello mangiava sardine alla griglia, io prendevo le anguille con il trito d’aglio e di prezzemolo. Sono sempre stato un mostro. Ma nell’insieme, in “Francia”, mangiavamo le stesse schifezze che mangiavamo già a Bordeaux. Fuori dai suoi ricordi, il nonno non parlava. Una notte, siamo stati svegliati dai suoi gemiti in provenienza dalla camera accanto. Abbiamo spinto la porta. Il nonno giaceva sul letto, la flanella bagnata fradicio. Tremava, tremava tanto che aveva delle convulsioni. Faceva dei salti sul letto. Sudava e diceva di essere ghiacciato dentro. Non sapevamo cosa fare. Pensate che eravamo ancora alle elementari! Abbiamo bussato alla porta della proprietaria per chiedere aiuto. Quando lei ha visto la scena, ha detto che ci voleva trovare nella valigia del vecchio, il chinino. Il nonno sta morendo? ho chiesto freddamente. Sono sempre stato un mostro. No, ha detto la proprietaria, è un attacco di malaria. Non vi preoccupate, bambini. Sono abituata con tutti questi marinai del porto. Il vostro nonno ha probabilmente preso la malaria in Africa, in Marocco o altrove durante il suo servizio militare. Sempre la stessa storia. La donna ci ha detto di tornare a letto che lei si occupava di tutto. L’indomani, il nonno sembrava in forma e nel pomeriggio siamo tornati verso Royan per prendere il traghetto e tornare a casa e mi ricordo ancora della prima cosa che mia madre e la nonna ci hanno chiesto: Allora questo viaggio in “Francia”?…..   

Oceano: Il bagno del 31 marzo!

Un giorno ti regalano quello che hai chiesto cioè un giorno di ferie un mercoledì. Un 31 marzo. Il meteo dice che farà quasi 30 gradi. Allora, siccome hai ancora un po’ di soldi alla fine del mese; non troppo, ma comunque abbastanza per comprare un po’ di benzina e farti  tagliare dal Basco degli affettati di granaio medocchino (una specialità del Médoc a base di stomachi di maiale, abbastanza pepata e che si mangia freddo) oppure qualche pezzo freddo di sanguinaccio sempre del Médoc, Ti manca solo il pane per i sandwich da comprare dal panettiere. Per quanto riguarda il vino, l’hai già in macchina, un resto di vino alla buona portato da casa. Ora stai camminando nelle dune boschive che separano l’oceano dallo stagno di Carcans e di Hourtin, un’ora e mezza già che stai costeggiando un tratto dei venti chilometri di lunghezza dello stagno. Nelle dune scoppiano la fioritura delle ginestre e sei tutto incipriato dall’oro dei pini. Un’ora che stai camminando sotto il sole, il canto degli uccelli e il volo silenzioso dei cormorani sopra i pini. Non rimpiangi niente perché se tu avessi parcheggiato la macchina, in riva al lago, nella cittadina di Maubuisson, non avresti dovuto fare sforzi per meritare lo stagno, non avresti avuto tutta questa bellezza che ti circonda, ma solo uno stagno addomesticato e il rumore della gente sulla passeggiata e il gridio dei bambini sulla sabbia. Ora devi trovare il posto giusto e non è affatto facile con la vegetazione che colonizza tutta la riva e le radici dei pini che corrono ovunque fino a tuffarsi nelle acque rosso dello stagno. A volte, credi di aver scovato il posto ideale per sederti o sdraiarti sulla riva, ma a terra, vivono pulci di mare o formiche nere, grosse da non crederci: degli scarabeidi. Un morso di formica è peggio di una puntura di vespa. Meglio dimenticare il falso paradiso. Più lontano, i tuoi piedi si ricordano che c’è un sentiero che porta a una piccola baia, senza formiche, con una bella sabbia rossa e l’ombra dei pini per proteggerti dal sole. Stai sudando dopo la camminata, sei tutto incipriato di polline. Allora ti spogli interamente. Non ci vuole esitare, mettere un dito in acqua per controllare la temperatura dell’acqua; che servirebbe a niente perché siamo ancora all’inizio della primavera. No, devi andare in acqua senza esitare, e al diavolo se il tuo cuore scoppia dallo shock termico. Poi dopo qualche minuto, ci si abitua al freddo dell’acqua e la sensazione è davvero piacevole. Ora sei sdraiato sulla sabbia rossa e ti viene una fame dopo il tuo primo bagno. Mangi i tuoi sandwich medocchini in silenzio, guardando il volo dei cormorani sopra i pini. Poi stai cominciando a pensare che ci sono ancora due ore di camminate per ritrovare la civilizzazione. Sul cammino le ginestre sono in fiore….