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Bacino di Arcachon e poesia: il canto della Leyre. quarta parte.

Tradotta da me in italiano dall’antica lingua del Bacino di Arcachon, ecco la quarta parte del bellissimo Canto della Leyre del poeta di Arès, Emilien Barreyre. Per la prima parte, cliccate qui; per la seconda, cliccate qui e per la terza, cliccate qui.

Èras encajolada, e pertant, ta beutat,

Era as sèirs clars de primavèra,

Gràcia au cèu gran aubèrt sus era,

La d’una encarceirada en plena libertat.

 

Eri imprigionata, eppure, la tua bellezza,

Era le chiare sere di primavera,

Grazie al cielo spalancato su di essa,

Quella di una incarcerata in piena libertà.

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Es qu’es la libertat permèira,

Quan n’agent coma tu que lo jorn per gardian,

L’òm pòt, eth escondut, dens un leit veirejant,

Recéber tot l’estelèira.

 

È che la libertà prima,

Quando si ha come tu che il giorno per custode,

Si può, nascosta da lui, in un letto di cristallo,

Ricevere tutto lo stellante.

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 Atau, bèra totjorn, e pujar, e pujar,

Tot au long de la ròca blanca;

E pataquèvatz shens estanca,

Era per ta sequèira, e tu, per l’engorgar.

 

Così, bella sempre, e salire, e salire,

Lungo tutta la duna bianca;

E vi picchiavate senza tregua,

Essa per prosciugarti, e tu, per riempirla.

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 Ajudas. Diu te’n balhèt quate :

Tòs dus sorguilhs, la pluja e d’Èst lo brusc aurei ;

E ‘ren qu’en te corsant as bohats dau darrèir,

Emb pro de temps, podèvas bater.

 

Di aiuti. Dio Te ne diede quattro:

Le tue due fonti, la pioggia e d’Est la forte brezza;

È soltanto spingendoti dai suoi soffi,

Che a lungo, potevi resistere.

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 Es atau que bohant sus ton blusós estèir,

Lo vent tan plombant d’eth hadèva

Una maròta que halèva,

E lo long de la ròca alavetz quau rastèir.

 

È così che soffiando sul tuo fiume bluastro,

Il vento abbattendosi tanto su di essa faceva

Un piccolo mare che montava,

Dai frangenti fino ai fianchi della duna.

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Puèi, de tu, lavetz, cada andada,

Cunhèva en baish la ròca a ras com un rocàs,

E caduna, autanlèu, tornèva  a tòs aigàs

Emb una andada ensableirada.

 

Poi, da te, allora, ogni onda,

Batteva in basso la duna alla base come un masso.

E ognuna, subito, tornava alle tue acque

Con un’onda sabbiosa.

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Mès la pluja entretemps, het mei que lo vent d’Est.

E pugères tant, ò ma Lèira,

Que de la mostrosa sablèira,

Dévarès tot brusc lo pantòc de l’Oèst.

 

Però la pioggia frattempo, fece più del vento d’Est.

E salisti tanto, o Leyre mia.

che della mostruosa duna,

Scendesti di un colpo il fianco Ovest.

 

Wunderkammer

Sono andato a vedere una mostra dedicata alle camere delle meraviglie che si chiamano cabinets de curiosités in francese. Immaginatemi, visitatore unico per causa di covid-19 e di afa, mascherato, deambulando nel buio in un immenso castello ducale trasformato in una camera delle meraviglie… Il post si divide in due. Nella prima parte, mi sono divertito a fare un elenco, non esaustivo ovviamente, delle cose che mi piacerebbe di aver se avessi una stanza delle meraviglie. La seconda parte è una riflessione fosca a proposito delle wunderkammer tratta dal famosissimo libro: Praga Magica di Angelo Maria Ripellino e che voglio condividere con voi. Ripellino ci racconta che nel libro di Max Brod, l’ultima esperienza di Tycho Brahe,  l’astronomo Tycho Brahe, un giorno, è invitato a visitare la più meravigliosa delle wunderkammer creata da un uomo, quella dell’imperatore Rodolfo II. E Ripellino e l’astronomo di svelarci la ragione per cui l’imperatore colleziona tutti questi oggetti e come lui è possesso dai suoi feticci…

Un Amuleto udjat, l’orecchio sinistro di Beethoven, una bilancia truccata, una mummia guatemalteca, l’astrolabio di Vasco da Gama, l’anatra-automa digeritrice di Vaucanson, una collezione di campanelli per celireferi, un bicchiere pieno d’acqua del fiume Pison, nove Lithobates catesbeianus in alabastro, una mazza da guerra kanak a forma di becco di pellicano, un orologio svizzero in ritardo, il bicorno che portava Lafayette alla battaglia di Yorktown, una candela rubata a Santa Maria in trastevere, una parrucca tutta tarmata del Re Sole, Il coltello di Bruto ancora tutto sanguinolento, una bibbia calvinista senza la copertina, l’ancora del Nautilus, quattro tsantsa tutte rinsecchite, una collezione di piume multicolori di Quetzal nonché diverse piume di altri uccelli sudamericani sconosciuti, la vipera che ha morso Cleopatra conservata in un vaso di formalina, la mascella inferiore di un unicorno, una collezione completa di ostriche slovacche, il naso di un generale vandeano conservato in un vaso di formalina, una collezione di suore spagnole naturalizzate che sarebbe appartenuta a Voltaire, una collezione di pipe olandesi in schiuma di mare, Quattro farfalle vampire della Tasmania, un mattone della prigione della Bastiglia con il suo certificato di autenticità, una collezione di mutande di Caterina de’ Medici, i veleni della chiromante La Voisin…

“Nel romanzo di Brod, visitando la “gackomora” rodolfina, Tycho Brahe tutto si raccapriccia in considerare l’opressione e l’angoscia che suscita “questo cumulo confuso di oggetti”: pareva all’astronomo “che lo stesso imperatore tremasse di spavento di fronte a quell’immensa ricchezza”.

La febbre di oggetti nasce in Rodolfo dalla bramosia di riempire il vuoto che lo avviluppa, di soperchiare la paura della solitudine. Egli congrega avidamente una selva di rari ordigni, comme a innalzare muraglie contro la morte. Il suo collezionismo maniaco esprime tanatofobia. Se è vero come Gogol afferma nel Ritratto che una vendita all’asta somiglia a un uffizio funebre, per la penombra e la lugubre voce del banditore che batte col martelletto, -le prodigiose raccolte di Rodolfo hanno anch’esse qualcosa di sepolcrale e le sue gallerie son arche di morti più che stanze di vivi.

Ma quell’inerzia, quella fissità è soltanto apparente. Le morte cose rivelano una sinistra inquietudine. Lo guardano con maleficio dalle loro tane come bestie in agguato. E alcune, troppo guardate da lui, hanno assunto il suo volto, quasi fossero specchi della sua ipocondria.

Agli ipocondraci molto avvantaggiosa è la mutazione dell’aria, che le fibre del cervello fortifica, il sugo nervoso purifica ed i fermenti tutti coi fluidi corregge. Ma Rodolfo non riesce a sottrarsi agli oggetti che lo tengono schiavo. Egli torna tra loro anche nel cuor della notte alla fosca vampa di grandi doppieri. Ed ecco sembra mutarsi in uno degli uomini-oggetti delle “bizzarrie” dei Bracelli, in un corpo tutto scomparti e cassetti, per nascondervi peccheri, gemme, monili. Il ranocchiesco cric-crac degli armadi, l’ammiccare dei cristalli e degli amuleti, l’idiozia a santo dell’abinzoar, i terribili occhi dei quadri, il sugnoso luccichio delle stoffe, i bisbigli delle pietre sono per lui più attraenti degli affari di stato. In quella dispensa di “huaca” , in quel dreamland” di feticci egli legge il mistero dell’universo, come nelle cucurbite e negli oroscopi.”

Angelo Maria Ripellino, Praga magica.